“L’ORTO AMERICANO” DI PUPI AVATI
Anno di produzione: 2024
Con: Filippo Scotti, Chiara Caselli, Rita Tushingham, Roberto De Francesco, Morena Gentile, Andrea Roncato
Parlare con i morti
Classe 1938, Pupi Avati nel corso della sua carriera ha affrontato tematiche differenti apparentemente agli antipodi. Ha alternato vari generi cinematografici, approcciando alla commedia, al film sentimentale, al musical, all’horror, al film storico, al noir. Il grottesco, la magia, il realismo e l’ironia sono gli ingredienti fondamentali del suo cinema. “L’orto americano” è il suo quarantatreesimo lungo e collocarlo nel filone horror è riduttivo perché in realtà è la summa del discorso cinematografico avatiano iniziato nel 1968.
Bologna 1955, un giovane aspirante scrittore con un passato in manicomio (come il personaggio di Laura Morante in “Il nascondiglio”), si innamora fulmineamente di una americana che non vedrà più perché probabilmente uccisa da un feroce assassino. Quest’ultimo mutila le sue vittime amputando loro la vagina. Il destino lo porterà negli Stati Uniti dove conoscerà proprio la madre e la sorella della ragazza. Troverà anche un barattolo con qualcosa di misterioso dentro.
Un amore impossibile, l’America silenziosa e isolata, l’Italia devastata dal secondo conflitto mondiale, il femminicidio, la vita e la morte, i legami di sangue problematici…un film pieno di tematiche, dicotomie, suggestioni. Astrazione e realismo, una girandola inquietante di personaggi spaventosi che si agitano intorno al protagonista ossessionato dalla ricerca dell’amata. Tra citazioni colte, non solo cinematografiche ma anche letterarie, Pupi Avati torna all’horror in maniera meno radicale rispetto a “Il signor Diavolo”, ma con una classe indiscutibile e una messa in scena classica e raffinata.
“L’orto americano” potrebbe essere suddiviso in tre parti: quella americana, la più misterica e fascinosa, quella processuale, la più meccanica e didascalica, e quella finale in Italia, la più poetica e spietata nel narrare l’ineluttabilità del male.
Un requiem dolente su un amore impossibile, sulla crudeltà umana, sulla donna che ieri come oggi può essere vittima del maschio accentratore e represso, incapace di gestire il rifiuto.
Il meccanismo da film giallo perde mordente quasi subito, l’assassino è presto riconoscibile, ma ciò che interessa al regista è continuare con forza autoriale a mettere in scena universi galleggianti e sospesi, dove il terreno è l’ultraterreno si contaminano costantemente (le foto dei morti, le voci dall’aldilà, i vivi che sembrano morti e i morti che tornano in vita). Il razionale invade l’irrazionale tramite la letteratura classica. Un uomo di fede in un mondo senza fede è in grado di razionalizzare il mistero.
Tra sonorità vintage volutamente fastidiose, l’immobilità del paesaggio rurale del nord Italia, le abitazioni funeree americane (la casa nello Iowa dove va a vivere il protagonista è la stessa utilizzata in “Il nascondoglio” ed è di proprietà di Avati e in passato del jazzista Beiderbecke), “L’orto americano” è più interessato alla costruzione del perturbante piuttosto che all’arrivare in maniera inattesa alla risoluzione del mistero.
Il film è tratto dal romanzo omonimo dello stesso Avati.
Coraggiosa la scena onirica a metà film.
Finale ambiguo che visivamente rimanda a un’opera di Hopper.
VOTO: 6.5
