“BRING HER BACK-TORNA DA ME” DI DANNY E MICHAEL PHILIPPOU
Anno di produzione: 2024
Con: Sally Hawkins, Sora Wong, Billy Barratt
VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI
Lutto: motivo di angoscioso tormento.
Due fratelli (lui è sensibile ma problematico a causa delle violenze subite dal padre, lei è ottimista e ipovedente), vengono presi in affido da Laura, una donna eccentrica ma apparentemente gentile. Quest’ultima non riesce a superare la morte della figlia anch’essa cieca. Oltre ai due giovani, ha in affido un ragazzo affetto da mutismo selettivo. A delineare la sua dimora c’è un cerchio tracciato sul terreno.
Cerchio: in alcune tradizione spirituali, il cerchio è disegnato o creato fisicamente per delimitare uno spazio sacro, proteggendolo da influenze esterne e creando un ambiente favorevole alla meditazione o al rituale.
VHS che contengono immagini di torture e cannibalismo, coltelli che squarciano le labbra, denti che si frantumano, liquidi corporei…i fratelli Philippou partono da un registro realista per poi insudiciarlo attraverso una carica anarchica che va contro il classico pensiero euclideo. Euclide era il fautore dell’ordine, del rigore e del geometrico. Sono maggiormente interessati al perturbante piuttosto che alla costruzione di una sceneggiatura che si occupi di strutturare il racconto in maniera classica (anche se qui e là appaiono piccole banalità tipiche del genere horror). Alternano immagini esplicite ad altre in cui la brutalità viene occultata, svariate azioni di Laura non vengono mostrate, possiamo solo cercare di visualizzarle nella nostra mente. Tramite questa alternanza lo spettatore è spinto a cercarsi una logica, un senso. “Bring her back” lavora sulla psiche di chi lo guarda. È un film sull’impossibilità della rielaborazione del lutto, Laura è ferma alla negazione e alla rabbia, vive le emozioni negative sino al parossismo, non si fa aiutare da uno psicoterapeuta, preferisce affidarsi all’irrazionale e all’occulto. Onora la memoria della figlia tramite una ritualità malata e mette in atto un piano diabolico per trovare una sostituta della ragazza. Il suo desiderio di maternità è ineluttabile.
Tra le pieghe di un racconto dell’orrore possiamo scorgere tutta la sofferenza che si cela all’interno di famiglie disfunzionali, costellate da assenze genitoriali, violenze domestiche, differenze caratteriali, dove la fantasia diviene strumento di astrazione dal dolore terreno. Questo è “Bring her back”, un film sul rifiuto del dolore, sull’incapacità di affrontarlo. Un horror cattivo, quasi mai rassicurante, l’ambiguità del male permea ogni suo fotogramma. I registi compiono un viaggio buio e tempestoso verso l’ignoto, quell’ignoto che Laura vive affidandosi al demoniaco e a forze indefinibili. Il reale è più spaventoso e ingestibile della ritualità malefica, il dolore è meno difficile da affrontare se c’è un credo a cui affidarsi. Credere in Dio è spesso fonte di enorme conforto, qui invece ci si lascia abbracciare dal maligno.
Un film su ciò che la sofferenza può far compiere agli esseri umani, essa è talmente deflagrante da fare a pezzi la razionalità.
L’opus numero due dei registi australiani fa un passo in avanti rispetto al precedente “Talk to me”. È evidente la loro voglia di trovare una forma autoriale potente e precisa, slegata da alcuni dogmi del genere horror classico.
VOTO: 7