“VINYL” DI ANDY WARHOL
Anno di produzione: 1965
Con: Gerard Malanga, Edie Sedwick
I primi esperimenti cinematografici di Warhol avvennero nel 1963. Per molti anni ha girato pellicole dalla durata variabile e approcciato ad argomenti diversi. Soprattutto in opere come “Empire” e “Sleep” rivoluzionario fu l’uso della macchina da presa fissa che si limitava a registrare passivamente fatti, personaggi, ambienti. Atti banali come dormire, succhiare un cazzo e mangiare, sono ripresi come fossero azioni emblematiche. Cinema totalmente indifferente all’etica e all’estetica. Sul finire degli anni sessanta i suoi film, pur rimanendo radicali, dimostrano un maggiore interesse per la composizione narrativa e drammatica. “Vinyl” è l’esempio di tale evoluzione.
Victor è un giovane criminale. Dopo essere stato arrestato gli viene offerta la possibilità di sottoporsi ad una strana cura invece che essere rinchiuso in carcere. Victor sceglie la terapia, si renderà ben presto conto che quest’ultima è basata su atti feroci.
Partendo dal romanzo “Un’arancia a orologeria” di Anthony Burgess, che sarà alla base anche di “Arancia meccanica” di Stanley Kubrick (girato anni dopo), Warhol crea un’opera filmica tecnicamente più estrema di quella di Kubrick, il quale si ispirò a “Vinyl” ricreando l’inquadratura in cui la macchia da presa tramite un movimento lentissimo parte dal primissimo piano del protagonista per poi allargarsi e mostrare tutti gli elementi e i personaggi in scena.
Chiodi di pelle, passamontagna borchiati, l’estetica di “Vinyl” è sadomaso e gay. Gli attori seguono un canovaccio, spesso guardano a filo macchina ascoltando palesemente le indicazioni di Andy. Sono sbalorditi da ciò che accade sul set (si dice che alcune torture così come le grida di dolore del protagonista fossero vere). Lo sguardo di “Vinyl” è frontale, ma l’azione si svolge su diversi piani.
La violenza genera altra violenza, le istituzioni non sono meno brutali di chi vive ai margini, la filosofia del male fine a se stessa invade ogni singolo fotogramma. Warhol non ha falsi moralismi, mostra una società che punisce chi vive le proprie deviazioni senza avere gli strumenti per farlo, ma rispondendo a tali deviazioni con altre deviazioni, in una specie di interminabile viaggio negli inferi. Come nel film di Kubrick anche qui il tema principale è l’utopia della libertà, ma se Kubrick crea un kolossal quasi fantascientifico dove all’interno di esso serpeggia anche una certa emotività, Warhol è più glaciale, la sua è pura videoarte in bianco e nero invasa da una colonna sonora pop rock.
Cinema performativo, il set è un microcosmo dove una manciata di “attori” si esibiscono davanti alla MdP in un palese stato di alterazione psichica. La famigerata cura Ludovico viene ripresa come fosse una sessione sadomaso con tanto di catene e cera bollente. “Vinyl” con il procedere dei minuti diviene un atto filmico ipnotico, lo spettatore diventa come il protagonista, come lui rimane inchiodato alla poltrona, non può distogliere lo sguardo, un finto pianosequenza lo catapulta in una dimensione “altra”, in una specie di party orgiastico fatto di corpi, pellame nero, t-shirt bianche, minigonne, sigarette.
Incessante anarchia creativa, cinema politico, unico.
Andy Warhol utilizza l’unità di spazio e di tempo per sbatterci in faccia un’esperienza audiovisiva dove ogni azione dei personaggi sprofonda nel delirio. Un assalto sensoriale riscontrabile nel cinema moderno solo nelle opere del grandissimo Gaspar Noè.
“Non posso sopportare tutto questo, è davvero terribile”
(dal film)
VOTO: 10
